Da poco ho ascoltato un meraviglioso intervento al festival di Filosofia 2023 da parte di Salvatore Natoli intitolato “Fantasmi di verità”, in cui ci si interroga sulla potenza della parola, intesa come mezzo per affermare la verità ma che, tuttavia, trascina con sé anche la menzogna.
Comunicare non (sempre) significa dire la verità
Questa è la consapevolezza etica che deve tenere a mente chi per professione si occupa di comunicazione. In particolare, è un dilemma su cui rifletto spesso, dato che, come copywriter e brand specialist, lavorare sulla parola (e sul messaggio da veicolare tramite esse) è il cuore pulsante del mio lavoro. L’ascolto di questo podcast mi ha permesso di riflettere, in particolare, sulla comunicazione nel mondo digitale e quello social, in cui l’utente non è più in grado (e non perché non ne sia capace) di mettere in dubbio la fonte delle informazioni che riceve, perché sono talmente tante che è difficile stare dietro al flusso.
La comunicazione è cambiata ed è cambiato il mo(n)do in cui raccontiamo
Il problema della verità e della comunicazione, come sostiene Natoli, è decisamente antico. Forse a qualcuno di voi suonerà familiare il famoso verso di Parmenide, che, parafrasato, suona più o meno così: “l’Essere è e non può non essere”. Detto in maniera piuttosto superficiale, questa frase ci dice che non possiamo comunicare qualcosa a cui non si può pensare. Eppure, sosterranno alcuni filosofi successivi, come ad esempio Protagora, nel momento in cui dico “non essere”, ho già decretato l’esistenza di qualcosa che non c’è. In pratica: non solo conosco la verità, ma anche la menzogna. E è questo un punto fondamentale per la nostra riflessione.
Chi possiede la verità possiede anche il potere dell’inganno
Nel podcast Natoli racconta che Aristotele sosteneva che ci sono due modi per nascondere la verità: il primo è sbagliandosi, ovvero facendo un’ipotesi su un dato fenomeno e scoprendo di avere torto (un errore innocente e in buona fede, per intenderci); il secondo consiste nel fatto che, pur conoscendo la verità, raccontare a qualcuno che non la conosce una menzogna su come stanno le cose. Chi possiede la verità, in poche parole, è sempre in vantaggio rispetto a chi non la possiede. Si tratta di un potere capace di persuadere masse intere, se ci pensate. Nel caso della comunicazione, e in particolare della pubblicità, significa conoscere a fondo i bisogni (ma soprattutto: i desideri) delle persone e fare leva su questi per spingerli a compiere un’azione ben precisa: acquistare.
Prima dei social, della televisione e del cinema, forse c’erano più anticorpi legati a questo tema. Questo non significa che già non esistessero forme di propaganda o di persuasione, ma che più spesso ci si ritrovava ad interloquire in una situazione uno a uno. In questo modo, si poteva chiedere all’altro di dimostrare quali erano le prove a sostegno della propria tesi. O comunque di mostrare scetticismo e avere quantomeno uno scambio, una relazione non unilaterale che permetteva di trovare una sintesi fra due tesi opposte.
Dal cinema ai social media: la pubblicità di massa
Secondo Natoli il vero unicum del Novecento è la nascita del cinema. Ovvero di un qualcosa che prima non esisteva e che ha cambiato per sempre il modo in cui le cose vengono comunicate. In fin dei conti, anche oggi la pubblicità si basa su un fondamentale concetto cinematografico: emozionare e far sognare le persone. È da questo momento in poi che la pubblicità comincia a diventare pubblicità per la massa, cioè, ha la possibilità di parlare a un’enorme platea di persone.
“Nei media il flusso di comunicazione diventa tale per cui ne siamo travolti”
L’aumento spropositato del flusso di comunicazione non ci permette di controllarlo, sostiene Natoli. E penso che abbia ragione. Ogni giorno siamo bombardati da immagini, consigli per gli acquisti, sogni, emozioni. Il filosofo e sociologo Marcuse direbbe che siamo “indottrinati” a nuovi culti, quelli dei brand, e a nuovi valori, non più quelli religiosi, bensì quelli legati ai prodotti che i brand ci dicono di comprare.
Tornando al discorso principale, questo flusso non ci consente di mettere in dubbio il valore di verità di quanto ci viene comunicato.
Fare comunicazione significa riflettere sul messaggio che si vuole comunicare
Avendo studiato Filosofia all’università, mi domando spesso come posso far convivere la verità rispetto alla necessità di rendere performante la comunicabilità. La risposta è molto semplice: metto dei dubbi sul piano etico in quello che faccio. È una scelta fastidiosa, quasi dolorosa perfino, ma a mio avviso necessaria. D’altro canto, se sento la necessità di migliorare le mie competenze, domandandomi “sono abbastanza bravo in quello che faccio?”, perché in questa bravura, in questa capacità, non dovrebbe rientrare anche la sfera morale?
Raccontare un prodotto o un brand non è facile, ma lo si può fare senza sotterfugi e senza trucchi
Ci sono due promesse che mi sono fatto, da questo punto di vista, da quando ho iniziato a fare questo lavoro: non accettare di lavorare per brand il cui operato è contrario alla mia etica; non raccontare nulla dei brand che non sia la verità. Un conto è lavorare su aspetti identitari del brand come il Tone of Voice; ben altro è comunicare promesse che poi non vengono mantenute. Bisogna essere chiari su questo, ma anche studiare e leggere tanto, soprattutto in un ambito in cui non esistono formule analitiche che possano dettare una strada chiara e lineare.
Comunicare è una parola meravigliosa: significa rendere comune, cioè, rendere tutti consapevoli di una conoscenza. In altre parole, tutti hanno diritto di conoscere la verità. Per questo è importante saperlo fare e saperlo fare bene.
IMMAGINE DI COPERTINA TRATTA DAL FILM Gone Girl.
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