Stamani, come ogni mattina da 43 anni circa, mi sono svegliato! Ho aperto gli occhi e mi sono diretto in cucina. Ho messo su un caffè e ho aperto la porta di casa. Mi trovo in un casale in montagna. Aria fresca, bosco, versi vitali di animali svegli da molto prima di me e odori pungenti di vegetazione viva. Non ho scarpe per cui posso sentire la terra e l’erba (e le piccolissime pietre appuntite) aderire alla pianta dei miei piedi. Guardo di fronte a me e il colore dominante è il verde e le mie pupille lentamente e liberamente si dilatano. Posso iniziare la mia giornata.
Stamani, come ogni mattina da 43 anni circa, mi sono svegliato! Ho aperto gli occhi e mi sono diretto in cucina. Ho messo su un caffè e ho aperto la finestra del soggiorno. Mi trovo al quarto piano di un palazzo sito in via Borsieri a Milano. Oggi fa particolarmente caldo e la copertura di asfalto che ci separa dalla terra forma una sorta di strato nero, avvolgente e poco traspirante. Gli odori sono quelli tipici della città: di gas di scarico delle auto, di ferro delle rotaie, di urina dei festeggiamenti della sera prima e di vita frenetica. I suoni spaziano dallo stridio delle ruote dei tram, i rombi dei motori delle auto, sino alle voci della gente intenta a parlare dentro i propri dispositivi mobili. Si sente anche qualche uccellino di tanto in tanto. Guardo in basso, verso il marciapiede e vedo tanti colori: la tinta dei palazzi e delle auto, i vestiti della gente, il colore grigio scuro dell’asfalto, il colore verde di una natura ormai disciplinata. Le mie pupille si dilatano. Posso iniziare la mia giornata.
E spero solo che il caffè non si sia bruciato…
Qual è il senso di queste due vignette appena disegnate? La motivazione che guida la mia matita è precisa: voglio portare alla mia coscienza l’informazione secondo cui l‘identità di un luogo, ovvero il luogo in cui mi trovo in un preciso momento, influisce sul mio modo di essere e, inevitabilmente, di fare le cose.
In tal senso, Harold M. Proshansky, psicologo statunitense, apre al concetto di “Identità ecologica” definendola suppergiù quell’insieme di caratteristiche individuali che risentono fortemente dell’influenza dell’ambiente, sulla base naturalmente delle esperienze in esso vissute, e che contribuiscono a definire la modalità con la quale ognuno di noi compie azioni e si relaziona al mondo.
In altre parole, giusto per semplificare e cambiare il punto di osservazione, in via del tutto ideale ogni essere umano avrebbe la capacità di sviluppare abilità che sono rilevanti per l’ambiente che abita. E fondamentalmente è quello che fa.
Detto questo, forse possiamo cominciare a individuare il senso delle due vignette di cui sopra.
Ovviamente il discorso di Proshansky va in una direzione prettamente esistenziale ove chiama in causa tanto l’identità soggettiva quanto l’identità sociale.
Io mi limiterò a indagare su come l’ambiente in cui vivo possa influenzare in qualche modo la mia produzione creativa, il mio lavoro, e possa essere fonte di ispirazione e di nuove idee. Il mio incipit ovviamente fa riferimento alle mie predilezioni: inizio con un’ambientazione naturale e seguo poi con un’altra un po’ più artificiale, quella della città.
Dal mio punto di vista potrei dire banalmente che la varietà offertaci dalla natura, regali numerosi input alle tante regioni del cervello ove si realizzano processi cognitivi.
È vero anche come la città sia una formidabile sorgente di stimoli se facciamo riferimento alle ispirazioni pittorico-letterario-cinematografiche di molti artisti. Uno fra tutti “Metropolis” di Fritz Lang. O ancora, “Le città invisibili” o i racconti di “Marcovaldo” di Italo Calvino.
Tornando sul piano della concretezza, è noto ormai quanto le industrie creative e culturali pongano particolare attenzione alla relazione tra ambiente e creatività, indagando, ad esempio, la misura in cui i propri lavoratori riconoscano il luogo come fonte di stimoli e idee creative. E non mi riferisco solo alla creatività intesa come processo collettivo bensì alla dimensione prettamente individuale dove l’impresa inizia a porre l’attenzione sulle dinamiche dei singoli soggetti coinvolti nel processo creativo. A voler essere brutali, si potrebbe trovare un parallelo con ciò che avviene nelle scuole elementari di stampo montessoriano. Ma questa è sicuramente un’altra storia.
Posso trasformare il luogo di lavoro in fonte di ispirazione estetica?
Tornando a noi, può essere l’impresa in cui lavoro, di per sé, una risorsa di spunti, idee, materie prime nei processi di progettazione?
Il corpus di teorie esistenti a riguardo sembra rispondere a questa domanda in maniera positiva.
Tutto questo mi tranquillizza e mi dà supporto se riconosco quanto, in qualche misura, l’ambiente può essere rinforzante per promuovere un processo creativo in me perché in un certo qual modo mi sento un po’ deresponsabilizzato.
Considerando quanto sia considerevole il nostro punto di vista nell’espressione delle nostre stesse capacità artistiche, possiamo bearci del fatto che queste subiscono inevitabilmente le influenze di un contesto esterno. Ce la dividiamo: fifty-fifty, 50 e 50. Oppure 60/40 o ancor meglio, facciamo 70/30? Dove non si sa a chi spetti il 70 e a chi il 30 per cento. E se vogliamo continuare a dare i numeri, possiamo fare ricorso alla PEFSC, Person-environment Fit Scale for Creativity (Sen, Acar & Cetinkaya, 2014), una scala di misurazione che analizza la compatibilità tra persone e ambiente nel processo creativo.
È l’industria creativa sembra cominci a tenerne conto. Esempio eccellente quello di Google, forse la prima azienda culturale che ha agevolato lo sviluppo di un ecosistema lavorativo incredibilmente fuori dalla norma, dove il “chiosco del ristorante con bancone e sgabelli funziona meglio delle sale conferenze in termini di creatività”.
Ricordandoci sempre che, creativo o non creativo, l’ambiente di cui sopra e sempre e meramente “un luogo di lavoro” la cui identità artificiale è costruita per aumentare il valore in termini di produttività e guadagno.
Tutto questo sarebbe molto bello e funzionale, in un mondo in cui arriviamo a considerare la creatività come un’attività volta alla produzione e all’aumento del fatturato e non come ricerca dell’assoluto, approccio all’anima umana e al suo bisogno di universalità e spiritualità. Fortunatamente per gran parte del genere umano (ancora) non è così.
E che io sia in un bosco oppure in una grande/piccola città, restare connesso all’ambiente, all’identità del luogo, non può che fungere da mirabolante moltiplicatore delle possibilità.
IMMAGINE DI COPERTINA TRATTA DAL FILM Pig – Il piano di Rob.
Che fai, te ne vai senza aver letto questi?